Chi è di scena? Totò
Enrico Fiore, «Corriere del Mezzogiorno».
Antonio De Curtis, in un immaginario dialogo con la maschera Totò, le fa dire: «‘Vedrai che il pubblico alla fine ci vorrà bene, perché gli faremo patire un sacco di piacere’. Disse proprio il verbo patire, quel buffone, ignorantissimo di filosofia come tutte le maschere, ma armatissimo di esperienze preziose, cioè a dire ricco di guai, di beffe subite, di appetito arretrato, esperienze che servono alla legge del contrasto comico. In fondo senza la miseria e le disgrazie non esisterebbe Pulcinella». E altrove il principe De Curtis spiega che «quella maschera con la bombetta e i calzoni larghi» è «la rappresentazione comica di un certo piccolo borghese italiano, timido, aggressivo, pauroso e alla fine ridicolo».
Goffredo Fofi – curatore del volume Il teatro di Totò. 1932-’46, appena uscito per i tipi della Cue Press di Mattia Visani – colloca queste citazioni in posizione fortemente icastica, all’inizio della sua densa introduzione. E giustamente le considera come un riscontro probante dell’argomento centrale della propria analisi: «Sociologicamente Totò è a cavallo tra l’esperienza sottoproletaria e quella piccolo-borghese, tra le quali, com’è noto a chi conosce Napoli, gli elementi di somiglianza sono fortissimi, e fortissimo è il tentativo piccolo-borghese di negarli per distinguersi dalla insicurezza della prima. Ne derivano due tipi diversi di aggressività: quella di chi da una condizione di precarietà assoluta tende alla soddisfazione dei bisogni primari, e di conseguenza risponde solo alla morale del bisogno; e quella di chi sente perennemente minacciata la sua minimale sicurezza da forze oscure e generiche non mai precisamente definite (lo Stato, chi comanda, i ‘caporali’, gli ‘altri’».
Ecco, su questa dicotomia si fondò il teatro a cui diede vita Totò. E dunque non sto a sprecare parole sull’importanza del volume curato da Fofi: a colmare la lacuna che interessa la stragrande maggioranza degli spettatori, i quali conoscono solo il Totò dei film che vengono riproposti senza posa sugli schermi televisivi, ci offre un’ampia antologia degli sketch scritti o interpretati dal non meno straordinario Totò dell’avanspettacolo, del varietà e della rivista. E si tratta di testi che fino a ieri conoscevano solo gli studiosi, in quanto provenienti dall’Archivio Centrale di Stato, dove sono state recentemente depositate le buste contenenti la maggior parte dei copioni passati in censura al Ministero della Cultura Popolare negli anni del fascismo.
Certo, parliamo di testi che, in genere, consistono in semplici canovacci, destinati ad essere sviluppati dall’improvvisazione in scena; e che, per giunta, scontano il limite d’essere, per così dire, un’anima priva del corpo incomparabile a cui si riferì Eduardo De Filippo con la sua famosa definizione di Totò: una «creatura irreale che ha la facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo e assomigliare a tutti noi».
Faccio al riguardo un solo esempio, citando un passo dello sketch Il gagà e la signora compreso nella rivista di Michele Galdieri Quando meno te l’aspetti... (1940): «Gagà: Signorinella pallida... – Signora: Vi prego, giovanotto, son signora... – Gagà: È meglio. Troverò la strada libera per starti accanto almeno un quarto d’ora... – Signora: E sia... ma un nido tiepido vogliate offrire a questa capinera... – Gagà: Ho qui la stanza con l’ingresso libero... – Signora: La garsonnière, ossia... giovanottiera! – Didascalia: Si apre il siparietto scoprendo una desolata camera mobiliata. Mobili sgangherati. Alla parete un quadro di Don Giovanni. – Signora: Oh! Che schifezza... – Gagà: Nel civettuolo nido dell’ebbrezza voi sognerete tanto accanto a me... – Signora: Vorrei sognare... ma ogni tanto scrocchiano le molle del sommier...».
Sì, niente di che. Ma, se è possibile, proviamo a immaginare che cosa diventavano queste innocue battutine quando a pronunciarle era il Gagà interpretato da Totò. Che per giunta aveva al fianco, nel ruolo della Signora, una certa Anna Magnani.
Tuttavia, anche nei semplici canovacci raccolti nel volume in questione è dato rintracciare l’inconfondibile e irresistibile tensione satirica e dissacratoria tipica di Totò. E qui di nuovo mi limito a un solo esempio, quello della rivisitazione del classico sketch napoletano ’A cammera affittata a tre compresa nel copione de La banda delle gialle curato da Paolo Rampezzotti (pseudonimo: Tramonti) e portato in scena dalla compagnia di Totò, nel 1933, all’Eliseo di Roma. Totò interpreta il personaggio di Mardocheo Stonatelli, direttore di banda. E quando un altro personaggio, Vermicelli, gli si presenta dichiarando sussiegoso: «Io sono avvocato», replica prontissimo: «E io sono una persona per bene. Vi affidano anche le cause?». E se l’altro lo informa che ha due figli, chiede provocatoriamente: «E sono vostri?». E se, infine, l’avvocato Vermicelli gli offre la sua assistenza legale, chiude il discorso con un drastico: «No, di guai ne ho passati abbastanza».
Peraltro, il volume curato da Fofi si rivela prezioso perché consente di farsi un’idea precisa del lavoro indefesso e accortamente strategico svolto dalla censura del regime. La quale, sempre per fare degli esempi, lascia correre il doppio senso gaglioffo ostentato dall’avvocato Vermicelli che risponde: «Arrangiatemi in qualche buco!» alla cameriera che gli ha detto: «Mi dispiace, l’albergo è tutto pieno...», ma interviene prontamente e pesantemente nel caso dello sketch Il fatto è successo a San Babila compreso ancora in Quando meno te l’aspetti.... Un tizio dice a Totò: «Radio Londra ha comunicato che stamani alcune squadre di fascisti requisivano e bruciavano le copie di un grande giornale... che pubblicava un articolo favorevole al nemico». E la censura di Mussolini corregge «fascisti» con «cittadini» ed elimina l’ultima parte della battuta: «che pubblicava un articolo favorevole al nemico». Così come, nel 1938, aveva messo le mani nel copione della rivista di Totò L’ultimo Tarzan, cancellando la battuta: «Capisco. Eravate un vero autarchico!» e arrivando persino a sostituire «Redipuglia» con «Redimorto».
Concludo. Il teatro di Totò riflette – e davvero non è l’ultimo dei suoi meriti – sul caso raro dell’attore che, smettendo d’essere un tramite neutro fra il testo scritto e il palcoscenico, quel testo è addirittura capace di riscriverlo: nel senso che, improvvisando come i comici dell’Arte, potenzia e rilancia il dettato dell’autore. E al riguardo mi torna in mente il Beniamino Maggio che, dopo essere stato anche lui fra i protagonisti eccelsi del teatro cosiddetto «leggero», nel 1979 interpretò il personaggio del contrabbassista Ferdinando in un allestimento de La musica dei ciechi di Viviani intitolato La parabola dei fringuelli ciechi e diretto da Michele Del Grosso.
La potenza di quell’atto unico, fra i capolavori assoluti del teatro europeo, sta nel fatto che i suonatori ambulanti ciechi portati alla ribalta da Viviani parlano e si comportano, sempre, come se ci vedessero. Quando Ferdinando parla delle fotografie che fecero al suo matrimonio, il mandolinista Antonio gli domanda: «E comme venettero?». E se il Ferdinando di Viviani risponde: «E chi ‘o ssape?», il Ferdinando di Beniamino Maggio rispondeva: «Si viene â casa t’ ‘e ffaccio vede’».